Ultimi aggiornamenti
Catene di Fast Food e Salute Pubblica: la pandemia silenziosa del XXI secolo
Mentre in molte città italiane si celebrano nuove aperture di catene di fast food con tagli del nastro e proclami mediatici, la comunità scientifica documenta con crescente rigore il ruolo distruttivo che questo modello alimentare ha sulla salute pubblica.
Non si tratta di semplici scelte alimentari: si tratta di un danno sistemico, fisiologico e neurologico, che colpisce trasversalmente popolazioni intere, a partire dai più giovani.
I cibi venduti in queste catene sono progettati per massimizzare il piacere e ridurre il tempo di preparazione.
Ma dietro il gusto e l'efficienza si nascondono strategie industriali basate su composizioni chimiche e nutrizionali artificiali: grassi idrogenati, zuccheri aggiunti, additivi, esaltatori di sapidità, conservanti e ingredienti ricostituiti, cioè derivati da polveri, estratti e composti ricombinati industrialmente, che hanno perso la struttura originale dell’alimento.
Questa perdita di "matrice alimentare" è oggi riconosciuta come un fattore chiave nella patogenesi dell’infiammazione metabolica, poiché altera la risposta digestiva, il rilascio ormonale postprandiale e l’interazione con il microbiota intestinale.
Questa miscela altera profondamente l’equilibrio fisiologico dell’organismo.
Ogni pasto consumato in un fast food può innescare una sequenza di reazioni che, se ripetute nel tempo, diventano parte di uno stress metabolico cronico e sistemico. Il primo impatto si ha a livello glicemico: il rapido assorbimento di zuccheri semplici porta la glicemia a superare i 180 mg/dl già entro mezz’ora, stimolando in modo anomalo la secrezione di insulina.
Questa risposta ormonale esasperata, unita alla presenza di grassi saturi e additivi, contribuisce ad attivare il sistema immunitario in modo improprio: aumentano nel sangue le citochine pro-infiammatorie come IL-6 e TNF-α, segni precoci di un’infiammazione cronica di basso grado.
Parallelamente, lo stress ossidativo aumenta: si accumulano radicali liberi e molecole ossidate come la malondialdeide (MDA), indicatori di un danno che non coinvolge solo il fegato o il pancreas, ma anche il sistema nervoso.
Infine, il cervello. I segnali che partono dall’intestino, profondamente modificato nella sua flora e nei suoi recettori, raggiungono il sistema nervoso centrale: si riduce la sintesi di serotonina e dopamina, si attivano cellule microgliali infiammatorie, si indebolisce la capacità del cervello di rigenerarsi e di adattarsi. Questo compromette il tono dell’umore, la lucidità, la memoria. Si tratta di un processo lento, ma inesorabile.
Effetti metabolici e neurofisiologici:
Quando l'alimentazione si basa su pasti provenienti da catene fast food, l'organismo inizia un lento declino fisiologico. I meccanismi coinvolti sono numerosi e ben documentati:
Insulino-resistenza: il pancreas viene iperstimolato dalla continua esposizione a picchi glicemici, portando a una ridotta sensibilità insulinica e infine a una predisposizione al diabete tipo 2.
Permeabilità intestinale: additivi, emulsionanti e sostanze pro-infiammatorie favoriscono l'apertura delle tight junctions intestinali, permettendo il passaggio di endotossine nel sangue (endotossiemia metabolica).
Disbiosi: la flora batterica si altera drasticamente, favorendo ceppi patogeni e riducendo la biodiversità microbica. Questo ha effetti negativi anche sul sistema immunitario e sull'umore.
Neuroinfiammazione: l'attivazione cronica delle cellule microgliali cerebrali genera una condizione di infiammazione cerebrale silente, che danneggia memoria e plasticità neuronale.
Riduzione del BDNF: il Brain-Derived Neurotrophic Factor, fondamentale per l'apprendimento e la rigenerazione neuronale, si riduce in presenza di alimentazione pro-infiammatoria e ricca di UPF.
Declino cognitivo e alterazioni dell'umore: il tutto si traduce in ridotta attenzione, affaticamento mentale, ansia, insonnia e depressione precoce, spesso misconosciute nella loro origine alimentare.
Dati clinici di riferimento:
- Liang S et al., 2025: ogni +10% di alimenti ultra-processati nella dieta comporta un aumento del 15% nel rischio di mortalità generale
- Srour B et al., 2019: analisi su oltre 100.000 soggetti: +14% rischio mortalità per ogni 10% in più di UPF
- Wang L et al., 2022: incremento del 29% del rischio di tumore al colon-retto nei forti consumatori (in particolare maschi)
- Zhong G-C et al., 2024: revisione sistematica e meta-analisi: confermata l'associazione tra UPF e aumento significativo della mortalità
Genitori dove siete?
Da un lato il messaggio pubblico delle istituzioni, che normalizza la diffusione di queste catene con superficialità disarmante; dall’altro la forza del marketing globale, capace di imporsi su ogni canale. Educare un figlio in questo contesto significa contrastare una corrente che travolge con offerte, influencer, spot e politici interessati ad un tornaconto puramente elettorale.
Significa insegnare a riconoscere il cibo vero e ad andare controcorrente, quando il potere supera cinicamente l'interesse pubblico.
Una questione etica e sociale:
- È coerente parlare di prevenzione sanitaria e, nello stesso tempo, tagliare nastri nei fast food, mentre la mortalità cresce?
- È progresso sostenere un modello che distrugge il tessuto neurologico e metabolico della popolazione, a partire dai più giovani?
Mentre gli amministratori si immortalano tra hamburger e slogan aziendali, la scienza documenta una pandemia silenziosa: quella dell’infiammazione cronica, dell’obesità pediatrica, della neurodegenerazione precoce. E tutto normale?
Chi pagherà i costi di questo disastro sociale e sanitario?
Lavori Clinici di riferimento:
Liang S, Huang X, Lin L, et al. Association between ultra-processed food consumption and all cause mortality 2025. PMID: 40033461
Srour B, Fezeu LK, Kesse-Guyot E, et al. Ultra processed food intake and risk of mortality BMJ. 2019. PMID: 31142457
Wang L, Du M, Sun T, et al. Association of ultra processed food consumption with colorectal cancer risk among men and women. BMJ. 2022 PMID: 35973802
Zhong G-C, Li Y, Cheng G, et al. Ultra processed food intake and risk of mortality Am J Clin Nutr. 2024. PMID: 37795103
Monteiro CA, Cannon G, Levy RB, et al. Ultra processed foods: what they are and how to identify them. Public Health Nutr. 2019 PMID: 31462506
Deopurkar R, Ghanim H, Friedman J, et al. Differential effects of cream, glucose, and orange juice on inflammation, endotoxin, and the expression of Toll-like receptor-4 and suppressor of cytokine signaling-3. Diabetes Care. 2010. PMID: 20185791
Tian Y, Yang C, Zhang X, et al. Dietary advanced glycation end products consumption and neurodegenerative diseases: A review of recent progress. Nutrients. 2021 PMID: 34683765
Caspani G, Kennedy S, Foster JA, Swann JR. Gut microbial–brain axis in neurological health and disease: A narrative review. Trends in Neurosciences. 2019 PMID: 31358485
Scrivi commento (0 Commenti)È difficile pensare che un semplice bicchiere di latte possa raccontare una storia millenaria, ma è proprio così. La capacità di digerire il lattosio – lo zucchero del latte – non è qualcosa di scontato: è frutto di un’evoluzione genetica, di una mutazione specifica, comparsa in alcune popolazioni circa 7.500 anni fa.
Prima di allora, nessun essere umano adulto produceva lattasi, l’enzima necessario a digerire il lattosio. Dopo lo svezzamento, la produzione calava drasticamente, perché il latte non faceva parte della dieta dell’adulto. Ma con l’avvento dell’agricoltura e soprattutto della pastorizia, qualcosa cambiò.
Alcuni gruppi umani iniziarono a consumare latte anche in età adulta. E in questi gruppi comparve una mutazione, localizzata nel gene regolatore MCM6, che permetteva al gene LCT di continuare a esprimere l’enzima lattasi anche dopo l’infanzia. In altre parole: nacque la persistenza della lattasi.
Una mutazione utile, selezionata dall’ambiente e dalla cultura. Un adattamento genetico che oggi determina chi può digerire il lattosio… e chi no.
Questa mutazione – nota come variante –13910*T (rs4988235) – è stata identificata come la principale responsabile della persistenza della lattasi nelle popolazioni europee. Secondo importanti studi genetici, come quello di Bersaglieri et al. (2004, American Journal of Human Genetics), la sua diffusione risale a circa 7.500 anni fa, durante la transizione al neolitico e lo sviluppo della cultura della ceramica lineare in Europa centrale.
Chi eredita la variante CC del gene MCM6 tende a perdere precocemente l’attività lattasica, mentre chi ha la variante TT riesce a digerire il latte anche da adulto.
Ma oggi, che senso ha conoscere questa mutazione? È solo curiosità evolutiva? O ha un valore clinico reale?
La risposta è chiara: ha un impatto concreto sulla salute di milioni di persone. L’intolleranza al lattosio è una delle cause più comuni di disturbi intestinali cronici, ma anche di sintomi meno ovvi: emicranie, dermatiti, stanchezza persistente, reflusso, anemia.
Spesso, però, non viene diagnosticata. I test del respiro possono dare falsi negativi o positivi incerti. I sintomi sono aspecifici. E così, migliaia di persone continuano a soffrire senza sapere il perché.
Il test genetico, in questo contesto, è uno strumento prezioso: non cambia al mutare della dieta o dell’età, è definitivo, e consente di fare prevenzione prima che i sintomi si cronicizzino.
Identificare precocemente una non-persistenza lattasica permette di evitare problematiche come:
- colon irritabile e disbiosi intestinale
- osteopenia da scarso assorbimento di calcio
- malassorbimento di ferro e vitamina D
- gonfiore, crampi, meteorismo e diarrea post-prandiale
Il latte non è un nemico, ma può diventarlo per chi non è geneticamente predisposto a digerirlo.
Nel Metodo BMS, il dato genetico viene sempre inserito in una visione olistica: non si tratta solo di eliminare un alimento, ma di costruire una nuova armonia alimentare su misura.
Nei centri BMS, grazie all’impiego di impedenziometri professionali di altissima precisione, è possibile monitorare la massa ossea e la massa minerale corporea nel tempo. Questo permette di valutare in modo oggettivo l’impatto che una dieta più adatta può avere sul metabolismo osseo, soprattutto nei soggetti che hanno consumato per anni alimenti contenenti lattosio senza saperlo e hanno sviluppato malassorbimenti cronici.
Per chi è intollerante, il piano include:
- eliminazione del lattosio
- introduzione di alimenti naturalmente ricchi di calcio e vitamina K2
- probiotici mirati per migliorare l’ecosistema intestinale danneggiato
- integrazione nutraceutica con enzimi lattasi disponibili in commercio, al bisogno
- valutazione sistematica dell'analisi impedenziometrica
Esistono alternative sicure: yogurt senza lattosio, bevande vegetali arricchite, cibi fermentati compatibili. Ma soprattutto esiste un nuovo modo di pensare la nutrizione, non più per esclusione ma per costruzione funzionale.
Parlare di intolleranza al lattosio oggi significa raccontare una storia di adattamento, di genetica, ma anche di ascolto del proprio corpo.
Nel Metodo BMS ogni dato genetico è un tassello. Ma è la lettura integrata – tra sintomi, storia personale e visione clinica – che fa davvero la differenza. Perché non basta sapere di avere una mutazione: serve capire come questa influenza la propria vita, e come accompagnarla verso il benessere. La consapevolezza è la chiave centrale nella logica BMS.
Il cambiamento inizia anche da qui. Da un test. Da un bicchiere di latte. E da una visione più ampia della salute.
Scrivi commento (0 Commenti)Negli ultimi anni, parlare di nutrizione personalizzata è diventata quasi una moda.
Ma quando la personalizzazione si fonda su evidenze genetiche, cliniche e molecolari solide, la differenza tra approccio generico e intervento mirato diventa evidente.
La nutrigenetica non si limita a identificare un singolo gene responsabile dell’aumento di peso o della risposta glicemica: al contrario, fornisce una mappa metabolica completa, da interpretare nella sua complessità.
Uno degli aspetti più sottovalutati è che molte problematiche croniche o recidivanti possono essere sostenute da piccole fragilità genetiche, spesso misconosciute o ignorate nella pratica clinica standard.
Ed è proprio qui che un approccio trasversale, come quello che sviluppiamo da anni, può fare la differenza.
La forza di una visione ampia: non solo peso o intolleranze!
Un errore frequente nell'applicazione della nutrigenetica è quello di soffermarsi su pochi geni noti e "inflazionati". Al contrario, una mappatura funzionale più estesa permette di scoprire vulnerabilità cliniche nascoste.
Facciamo alcuni esempi:
Sensibilità al glutine non celiaca: alcune varianti genetiche possono predisporre a una risposta infiammatoria sistemica dopo l'assunzione di glutine, senza che ci sia una celiachia conclamata.
Intolleranza al lattosio: identificare precocemente una non-persistenza lattasica aiuta ad evitare problematiche e patologie, gastrointestinali ed extraintestinali ben più impegnative (come colon irritabile, osteopenia, calcolosi renale, reflusso gastroesofageo) e a ricostruire una dieta più tollerabile e sostenibile.
Sensibilità al nichel: se non supportata da un dato genetico, questa condizione è spesso ignorata, eppure può influenzare l'infiammazione su più livelli, cutanea, bronchiale, intestinale e connettivale.
Alterazioni nel metabolismo della vitamina B12: alcune mutazioni possono causare deficit funzionali in grado di compromettere in maniera importante il metabolismo energetico ed i livelli di neurotrasmettitori.
Tutti questi elementi, letti singolarmente, possono sembrare trascurabili. Ma è solo integrandoli in una visione clinica sistemica che emergono le loro implicazioni profonde.
Precisione nella nutrizione, ma anche nella nutraceutica: un nuovo approccio è possibile!
Le stesse mappe genetiche possono essere usate per definire strategie mirate anche dal punto di vista integrativo. Conoscere la presenza di una mutazione nel gene GSTM1, ad esempio, cambia l'intera strategia detossificante. Una carenza nella via della metilazione (MTHFR) modifica l'uso di vitamine del gruppo B. Una scarsa attività della DAO cambia radicalmente l'approccio alle istamine alimentari.
La micoterapia, inoltre, diventa uno strumento raffinato quando usata per sostenere le vie antinfiammatorie, immunitarie o mitocondriali più compromesse nel singolo individuo.
Parlare di dieta oggi sembra essere quasi fuori tempo: una visione d'insieme integrata è alla portata di tutti!
Il futuro richiede un linguaggio più complesso, che unisca:
- analisi genetiche per mappare predisposizioni
- interpretazione clinica personalizzata, non standardizzata
- strategie nutrizionali adattive per fase di vita, stagione, e biotipo
- supporto nutraceutico e micoterapico sinergico, non casuale
In questo senso, il Metodo BMS rappresenta una piattaforma in continua evoluzione, capace di rispondere a questa nuova complessità con strumenti concreti, scientifici e praticabili.
Espandere il sapere. Espandere la rete.
Ed è proprio per rispondere alla crescente richiesta di questo tipo di interventi, fondati su basi scientifiche reali e non su mode effimere, che abbiamo deciso di ampliare la rete di professionisti formati nel Metodo BMS.
Presto annunceremo nuove collaborazioni, nuovi centri e una nuova generazione di nutrizionisti e terapeuti capaci di leggere la genetica, interpretare la clinica e costruire piani su misura per ogni individuo.
Se anche tu senti che la nutrizione non può più fermarsi a calorie e grammature, e desideri far parte di questa nuova visione, continua a seguirci. Il cambiamento è appena cominciato.
Scrivi commento (0 Commenti)


